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La Guerra Giapponese. Russo-Japanese War 1904-1905 (Chapter 1)

Michail N. Pokrovskij, "Storia della Russia", Prefazione di Ernesto Ragionieri, Editori Riuniti, Rome, 1970

[ Chapter 1]

Il movimento operaio, il movimento contadino, il movimento dell'intellettualità piccolo-borghese urbana minavano lo Stato fondato sulla servitù feudale dal basso, ma il vertice sembrava ancora ben saldo e capace di resistere per molti anni. Gli uomini degli anni ottanta erano persuasi che in Russia, quanto meno nel giro di una generazione, non vi sarebbe stata nessuna esplosione rivoluzionaria. I giovani degli anni novanta guardavano non senza apprensione al-Fimmediato futuro: sarebbe mai scoppiata la rivoluzione? Dopo il 1901 tutti sentivano ormai che la rivoluzione si stava approssimando. Ma come e dove sarebbe cominciata? In che modo si sarebbe potuto sferrare l'attacco contro quella roccia granitica detta autocrazia zarista? Da un pezzo le onde del movimento si erano abbattute sulla sua base, ma la vetta non era stata neanche sfiorata dalla cresta di quelle onde. Ogni sciopero, ogni manifestazione si era inevitabilmente con- clusa con arresti e deportazioni. Nessuna azione era ancora riuscita ad assumere un carattere nazionale, a scuotere l'intera massa del popolo. Per il governo non era, evidentemente, troppo difficile avere la meglio su quelle azioni isolate. 

Sotto il governo di Pieve, nel 1903, al di fuori dei circoli propriamente rivoluzionari, che svolgevano instancabilmente il loro lavoro organizzativo e propagandistico, tra i grandi strati degli intellettuali cominciò talora a diffondersi un orientamento assai vicino a quello degli uomini degli anni ottanta. La predicazione dei « marxisti legali », i quali avevano ormai definitivamente assimilato l'ideologia revisionistica e cercato di dimostrare « scientificamente » che non vi sarebbero state rivoluzioni, che era irrevocabilmente passato il tempo della rivoluzione, da una parte, e gli indubbi successi dello zubatovismo tra le masse operaie, dall'altra parte, tendevano a disgregare gli intellettuali. A nessuno di questi uomini di poca fede passava per a testa che « Romanov » si erano già scavati da sé la fossa e che la vetta maestosa della roccia autocratica resisteva ormai soltanto per inerzia: bastava un colpo ben vibrato perché la roccia si fendesse in tutta la sua lunghezzato. 
I « Romanov » furono condotti alla rovina da ciò che aveva dato origine alla loro forza e alla loro gloria. I fondatori dell'impero russo s'infransero infatti nel tentativo di estendere i confini del paese; i grandi accumulatori di miliardi caddero mentre tendevano la mano verso un nuovo miliardo, che sembrava sul punto di finire nella borsa dei « Romanov ».
 Prima di passare alla politica estera di Nicola II, il quale, in virtù di questa politica, diventò il becchino di sé stesso e dell'intera dinastia, bisogna dire qualcosa sulla politica dei suoi predecessori. Abbiamo lasciato Alessandro II mentre tentava senza successo di conquistare Costantinopoli e al momento dello « scandalo » del congresso di Berlino del 1878 (cfr. la seconda parte). Come si ricorderà, le speranze di Alessandro si fondavano su un trattato segreto con la Germania, che aveva promesso di « aiutare » la Russia e che con vari pretesti si era poi sottratta all'impegno preso. Lo zar russo non potè perdonare al cancelliere Bismarck, che dirigeva la politica tedesca, questo tradimento, come a suo tempo non aveva perdonato alla Francia la pace di Parigi (1856). Essendo in rotta con la Germania, lo zar aveva adesso tutti i motivi per rivolgersi alla Francia: alle manovre del 1879 i militari francesi furono accolti con particolare simpatia. Bismarck si affrettò a stipulare nello stesso anno un'alleanza con l'Austria, che era stata sul punto di far la guerra con la Russia, ma, essendo un calcolatore, cercò di non deteriorare subito le relazioni con la Russia I rapporti rimasero freddi, ma l'alleanza russo-tedesca fu tuttavia rinnovata per tre volte: nel 1880 nel 1884 e nel 1887 Gli ultimi due accordi furono conclusi con Alessandro III. Bismarck lo lusingò con Costantinopoli, che nel trattato del 1887 venne nominato espressamente, - per evitare il « malinteso » del 1873, quando si era parlato vagamente di una guerra con una potenza anonima - ma Muto tedesco era stavolta assai più indnetto: „ diceva soltanto che la Germania si impegnava a « non ostacolare » la Russia. In altri termini Bismarck prometteva di gabbare l'Austria nel caso duna nuova gu^ Vicino oriente, come nel 1877 aveva già mgannato la Russia (il trattato russo-tedesco del 1887 fu tenuto segreto all'Austria). 
Nello stesso anno Alessandro dovette tuttavia convincersi che Bismarck, se prometteva di ingannare l'Austria, stava già truffando proprio lui. La Russia avrebbe dovuto consolarsi della mancata conquista di Costantinopoli con la Bulgaria settentrionale (dal Danubio ai Balcani), che era un principato semindipendente secondo il congresso di Berlino, che era sulla carta un vassallo della Turchia e che di fatto dipendeva dalla Russia. Come principe venne designato un parente di Alessandro II, cioè Alessandro di Battenberg. Il capitalismo russo, che non aveva ottenuto un gran bottino, decise di ricavare tutto quello che poteva dal bocconcino concessogli. Si cominciò a trattare la Bulgaria come se fosse un bene ereditario russo: si costrinse, ad esempio, il governo bulgaro ad acquistare vecchi armamenti russi, rivelatisi inservibili già al tempo del conflitto russoturco, e inoltre allo stesso prezzo dei nuovi armamenti. Non era difficile giocare simili scherzi, tanto più che alla testa del governo bulgaro erano stati posti dei generali russi, inviati da Pietroburgo. La borghesia bulgara, sviluppatasi rapidamente già sotto il dominio turco, pur continuando a crescere con un ritmo anche più rapido, pazientò. Ma da ultimo fini per perdere la pazienza. La principale iniziativa, con cui il capitale russo contava di arricchirsi in Bulgaria, era la costruzione di una rete ferroviaria: le linee ferroviarie bulgare sarebbero state costruite da ingegneri russi e con materiale russo; il progetto della rete ferroviaria prevedeva inoltre che le linee bulgare fossero strettamente collegate con le linee russe e soltanto con esse. Se il progetto fosse stato portato a compimento, lo stato di soggezione della Bulgaria si sarebbe perpetuato per molti anni. 
Che il progetto « russo » costasse molto più caro di ogni altro piano, che la Bulgaria venisse in tal modo tagliata fuori dall'Europa occidentale, tutto questo, naturalmente, non veniva neanche preso in considerazione: « noi » abbiamo liberato la Bulgaria, siamo « noi » i suoi benefattori, ed essa deve offrire a « noi » i suoi servigi. Ma la borghesia bulgara, rendendosi conto che stavano per stringerle un cappio intorno al collo, si ribellò energicamente e diede prova della più nera ingratitudine. I bulgari dichiararono che avrebbero costruito con le proprie forze le proprie ferrovie nel modo per loro più vantaggioso e nelle zone in cui ve ne fosse stata necessità. Alessandro battenberg si schierò con i capitalisti bulgari e, naturalmente, fu considerato a Pietroburgo un traditore, ma in Bulgaria riuscì a conquistarsi una grande popolarità. Alessandro III rivelò nella questione tutta la sua rozzezza e goffaggine. Scacciò suo cugino dalla Bulgaria, senza esitare a imbastire a tale scopo un « complotto contro il legittimo sovrano » (non si dimentichi che sulla carta la Bulgaria era un «principato indipendente» e che non si poteva mandar via Alessandro Battenberg come fosse un governatore russo), tentò di dare la Bulgaria ai serbi, richiamando durante il conflitto serbo-bulgaro gli ufficiali russi, che erano rimasti al comando dell'esercito bulgaro, e privando cosi nel momento più critico l'esercito bulgaro dei suoi comandanti e « specialisti ». Ma con tutto questo ottenne soltanto che la Bulgaria si gettasse tra le braccia dell'Austria e da essa ricevesse il suo nuovo principe, Ferdinando di Coburgo, che avrebbe poi governato il paese, con il titolo di re, sino al 1918. 
Alessandro III dovette intanto convincersi definitivamente che non poteva far assegnamento sulla Germania contro l'Austria. L'unica capitale dove lo zar russo trovò un certo sostegno fu Parigi. Il resto dell'Europa, Berlino compresa, si mostrò invece solidale con i bulgari. Riaffiorarono cosi le vecchie idee circa un'alleanza franco-russa, idee che erano maturate un tempo nella testa di Alessandro IL Le condizioni economiche finirono per spingere verso quest'alleanza.
 La crisi dei prezzi dei cereali non si abbatté soltanto sul grande proprietario terriero russo, essa colpi anche più rovinosamente lo Junker prussiano, la cui azienda aveva un carattere più capitalistico e pertanto dipendeva ancora di più dal mercato. Il proprietario fondiario prussiano chiese strepitando che si « proteggesse l'agricoltura nazionale », cosi come il capitalista russo chiedeva strepitando che si « proteggesse l'industria nazionale ». Bismarck, che nel governo tedesco rappresentava gli interessi dei grandi proprietari terrieri, non poteva restare insensibile a quell'appello. Nel 1880 vennero così introdotti i dazi sui cereali, che furono poi triplicati nel 1885 e quintuplicati nel 1887. Il mercato tedesco aveva però un'importanza eccezionale per le esportazioni russe di cereali: la segala veniva esportata solo in Germania, e negli anni novanta dalla Russia si esportavano 1,5 milioni di tonnellate di segala. 
Bismarck si persuase di avere in pugno economicamente l'impero russoegli sapeva che il governo «genuinamente russo» dei « Romanov » non avrebbe potuto fare a meno dei prestiti esteri, e questi prestiti erano stati sino a quel momento concessi prevalentemente a Berlino Quando Pietroburgo cominciò a brontolare per le questioni bulgare e per i dazi sui cereali, Bismarck dispose perché non si accettassero i titoli russi nelle banche tedesche. Ma qui commise un errore. 
A quel tempo (in virtù del lungo periodo di pace, dopo il 1871 non vi erano state più guerre in Europa occidentale) il denaro era in Europa a buon mercato. Il ministro di Alessandro III, Vysnegradskij, scacciato da Berlino, si rivolse a Parigi, dove fu accolto a braccia aperte. Tutti i prestiti russi furono cosi convertiti a Parigi, intorno alla fine degli anni ottanta, a condizioni molto vantaggiose.
 Mediante la dislocazione dei prestiti russi a Parigi si creò, nella sostanza, l'unione franco-russa: la borghesia francese, avendo acquista- to i titoli russi, era ora vitalmente interessata al fatto che prospe- rassero gli affari dello zar russo sia all'interno del paese che fuori dei suoi confini. Due cause si frapponevano tuttavia alla stipulazione formale di un'alleanza. La prima consisteva nel carattere repubblicano dello Stato francese. Per noi che sappiamo bene ormai che cosa siano le repubbliche borghesi può sembrare curioso un simile ostacolo. I pugni dei poliziotti francesi non erano peggiori di quelli dei poliziotti russi, la giornata lavorativa era anche in Francia di dodici ore, gli scioperanti venivano in essa perseguitati in modo tale che il governo zarista avrebbe potuto imparare qualcosa da quella repubblica democratica: perché mai dunque un « Romanov » avrebbe avuto da ridire su un'alleata cosi « degna »? Bisogna ricordarsi qui della natura di Alessandro III. Egli non poteva ammettere che fossero gli avvocati a dirigere lo Stato, non poteva ammettere di dover trattare come un pari il presidente della repubblica francese, l'avvocato Grévy. Bisogna ricordare che nei circoli dei « Romanov » un avvocato, cioè un intellettuale raznocinets, era valutato assai poco. Quando al tempo di Alessandro II si discusse un progetto per immettere nel Consiglio di Stato i consiglieri degli zemstvo, una delle obiezioni principali consistette nella possibilità che venissero eletti degli avvocati. Di questa obiezione si dovette tener conto (La cosa non riguardava soltanto gli avvocati, ma tutti i raznocintsy in generale). Nicola II a lungo non riuscì a capire che a un medico si poteva tendere la mano come a un ufficiale (n.d.a.).
 Ora, d'un tratto, un avvocato sedeva accanto allo zar! In un momento d'ira Alessandro III disse allo stesso ambasciatore francese: « Però, che marmaglia il vostro governo! ». L'ambasciatore non era un avvocato, ma un generale, e quindi Alessandro lo considerava uno dei « suoi ». 
Cosi stavano le cose per ciò che riguardava i russi. Quanto ai francesi, per lungo tempo essi non riuscirono ad abituarsi ai gusti e alle consuetudini dei nuovi alleati. L'alleanza veniva intesa a Pietroburgo nel senso che Russia e Francia avevano nemici comuni, sia esterni che interni. Noi ti difenderemo dal tedesco, e tu ci darai i « nihilisti » russi che « si nascondono » in Francia. Il fondatore della repubblica francese, il vero fondatore, Gambetta, si era reso perfet- tamente conto di questo modo di ragionare: nelPaccingersi a realizzare con la Russia un'alleanza, — di cui, e vedremo subito perché, lui e il suo partito avevano bisogno, — si era detto senza troppe cerimonie favorevole a consegnare ad Alessandro III tutti i rivolu- zionari russi rifugiati in Francia. Ma Gambetta morì, senza riuscire a stipulare l'alleanza, e i suoi eredi non furono uomini di cosi « ampie » vedute. La repubblica era ancora giovane, le masse avevano nei suoi confronti un atteggiamento molto serio, gli operai dal basso premevano, si era appena (1880) concessa un'amnistia ai comunardi (e nel 1884 la libertà di associazione), gli avvocati che dirigevano la Francia si sentivano « a disagio ». Fecero non poche infamie a vantaggio del governo zarista: tennero in carcere Kropotkin, espulsero dalla Francia Plechanov, ma non giunsero a consegnare allo zar i « nihilisti ». Era necessario cedere da una parte e dall'altra, e cosi fecero: i gendarmi russi impiantarono a Parigi una loro sezione politica, con un apparato di provocatori, col fine preciso di spingere i rivoluzionari russi più inesperti o più insensati ad azioni che fossero in contrasto con le leggi francesi: cosi sarebbe stato facile gettarli in carcere. E i francesi, senza consegnare direttamente i rivoluzionari, espulsero come « indesiderabili » gli elementi più attivi, inviandoli in Germania, dove la polizia li trasse in arresto e li rispedì « in patria ». L'affare era fatto, e la Costituzione repubblicana non veniva toccata. Ma perché tutta l'operazione andasse in porto ci volle molto tempo, e in questo periodo non furono poche le polemiche.
 C'era però un'altra circostanza che tratteneva Alessandro III dal- Pallacciare rapporti troppo stretti con la repubblica francese. Ales- sandro, come tutti i « Romanov », prima e dopo di lui, era pronto a combattere sul serio soltanto per Costantinopoli \ Ma il momento per quella guerra non era ancora venuto: tre anni prima della morte di Alessandro III, la flotta del Mar nero era ancora in allestimento, e si stava riarmando la fanteria con un nuovo fucile (di piccolo calibro). Intanto i francesi, non appena intravidero la possibilità di un'alleanza franco-russa, subito misero mano alle armi, e il ministro della guerra di quel tempo, generale Boulanger, che era un grande amico dei centoneri russi, si batté apertamente per la « revanche » nei confronti dei tedeschi. Un ministro francese dell'epoca, Frayssinet, braccio destro di Gambetta, riconosce nelle sue memorie che i francesi si fecero in quattro per costringere lo zar a sottoscrivere un accordo militare con la Francia, ricorrendo alla mediazione di un'alta personalità come il noto spione e provocatore Rackovskij, che era addetto alla difesa personale di Alessandro III, ma neanche questa mediazione potè raggiungere lo scopo, e Alessandro III firmò un accordo militare segreto con la Francia solo nel 1893, quando il chiasso fatto da Boulanger era ormai una cosa del passato. 
Come risultato di tutti questi malintesi e polemiche sempre più stretta e sincera diventò l'unione tra il Palazzo d'inverno e la Borsa parigina. Alessandro III ebbe a Parigi un vero amico, non nel presidente e nei ministri, ma in un banchiere, che in seguito si vantò del fatto che Alessandro III aveva affidato il figlio Nicola II alle sue cure per la parte finanziaria. Comunque sia, l'influenza della Borsa parigina a Pietroburgo fu molto forte; e Alessandro III, se rimase sordo ai bellicosi appelli dei generali francesi, camminò sulla corda dietro i banchieri francesi, e cosi fece colui che gli succedette al trono nell'ottobre del 1894, fino a che non si giunse alla prima catastrofe dei « Romanov », in Manciuria, negli anni 1904-1905. 
Il capitale francese, o, più esattamente, il capitale europeo, che, con l'eccezione dell'Inghilterra, era concentrato verso la fine del secolo XIX nelle mani della Borsa parigina, aveva preso gusto a muoversi verso oriente. Gli interessi per i prestiti concessi alla Russia negli anni ottanta e novanta erano i più alti d'Europa, ma non si poteva ottenere di più in Asia? Non per caso la costruzione della Transiberiana, decisa sin dal 1887, aveva assunto in pochissimo tempo una grande importanza politica. Lo stesso Nicola, che era a quel tempo l'erede al trono, era stato inviato a « porre la prima pietra » del tratto orientale della ferrovia nel 1891 (e in quell'occasione s'era imbattuto per la prima volta in una spada nipponica: un episodio che i superstiziosi avrebbero potuto considerare come un brutto segno) \ Ma quando nel 1895, lungo le coste orientali del continente asiatico, comparve il Giappone, che con una rapidità assolutamente impensata per la borghesia europea regolò i conti con l'esercito e con la flotta cinese e smentì al tempo stesso le leggi sulla « rinascita » cinese con l'aiuto delle potenze europee, la Russia, alleata con la Francia e con la Germania, si affrettò a intervenire. Presi alla sprovvista per il bavero, i giapponesi non ottennero neanche una zolla di terra sul continente e dovettero accontentarsi di un tributo. Ma perché la Cina pagasse questo tributo e sistemasse in generale i propri affari finanziari, ottenendo prestiti, ecc., nello stesso 1895 venne costituita, dal ministro russo delle finanze Vitte e dai maggiori banchieri parigini, la Banca russo-cinese. 
Che non si sia trattato di fatti occasionali, ma solo degli aspetti particolari di un piano complessivo è attestato dalle parole che Vitte scrisse tre anni prima, nel 1892. « La grande arteria siberiana — annotava il ministro delle finanze, che aveva appena assunto il nuovo incarico — schiude una nuova via e nuovi orizzonti anche per il com- mercio mondiale, e questo pone la sua costruzione tra i fatti mondiali, da cui prendono l'avvio nuove epoche nella storia dei popoli e che provocano non di rado rivolgimenti radicali nelle relazioni economiche esistenti tra gli Stati. » 
Non è difficile capire che cosa si prefiggessero con questo « fatto mondiale » i soci di Vitte. Ma forse sarà più corretto dire che era Vitte il loro socio, perché la Russia non aveva certo eccedenza di capitali, e, se qualche soldo tintinnava nelle sue tasche, non era russo, ma francese. Si capisce facilmente che cosa abbia sospinto la Germania a far parte di questa compagnia: la Russia aveva infatti solo poco più merci che soldi da esportare in Estremo oriente, ed era evidente che la Transiberiana avrebbe trasportato più merci delle fabbriche tedesche che non di quelle russe. Quando i russi occuparono, come vedremo, Port Arthur, gli agenti delle ditte tedesche giunsero sul posto assai prima dei rappresentanti dei capitalisti russi. 
Si può allora dire che la Russia non fu altro, in Estremo oriente, che uno strumento dei banchieri parigini e dei fabbricanti tedeschi? No di certo, e quanto abbiamo già detto riguardo alla resistenza di Alessandro III alla provocatoria politica di Boulanger dimostra che, quando non era in causa un interesse « nazionale », quando il capitale russo non trovava modo di fare affari e quando l'avvenire non prometteva al governo zarista altro che guai, questo governo sapeva impuntarsi. Se in Estremo oriente segui docilmente francesi e tedeschi, senza resistere, lo fece non solo perché non temeva da quelle parti alcun guaio (come aver paura di quei « giapponesi »?), ma anche perché considerava quell'impresa come un buon affare e anzi, negli ultimi anni del secolo XIX, come la sola via d'uscita. 
Abbiamo già visto sopra che la grande industria russa della fine del secolo XIX soltanto in un suo ramo, quello tessile, poggiava sul largo consumo; l'industria metallurgica aveva infatti il suo principale sostegno nell'economia statale, più che in quella privata. Gli interessi della nostra metallurgia vennero quindi assumendo ben presto un carattere statale. Un esempio tipico ci è stato fornito dalla politica bulgara di Alessandro III. 
Il trattato di Mosca, sottoscritto dal celebre « riformatore » cinese Li Hung-chang al tempo dell'incoronazione di Nicola II (22 maggio 1896), assicurava alla Russia il diritto di costruire ferrovie in territorio cinese. Richiamandosi a questo trattato, il ministero russo delle finanze parlò nel 1902 dell'« eccezionale importanza di tale concessione per i nostri interessi in Cina », poiché era evidente P« importante funzione assolta nella lotta economica dalle vie di comunicazione ». « Si poteva sperare che per mezzo della Banca russo-cinese, istituita nel 1895, saremmo riusciti a conseguire ulteriori successi in questo campo. In virtù delle ingenti risorse finanziarie e in forza del diritto fissato nello statuto a partecipare a tutte le iniziative riguardanti le costruzioni ferroviarie in Cina, la Banca, con il sostegno della nostra missione, aveva tutti i mezzi per svolgere una funzione importante in questo campo di attività. Consapevoli, evidentemente, di tale condizione, sin dai primi anni di attività della Banca russo-cinese in Cina, a essa cominciarono a rivolgersi numerosi imprenditori ferro- viari, sia cinesi che di altre nazioni. »
 Il rivale del capitale russo nelle costruzioni ferroviarie cinesi fu il capitale britannico. A causa dell'ingerenza inglese, la Russia non riuscì a ottenere il monopolio sulla costruzione della rete ferroviaria a nord del Fiume giallo, ossia delle linee ferroviarie che dovevano collegare Pechino, capitale della Cina, con le regioni centrali dell'impe- ro poste più a sud. Ma della cosa non ci si lagnò troppo, perché erano già sufficienti gli affari da concludere a nord di Pechino. All'inizio si era deciso di far giungere la Transiberiana sino a Vladivostok in territorio russo, lungo il fiume Amur. In seguito si comprese che quest'itinerario era scomodo e svantaggioso e si decise di raddrizzare la ferrovia e di farla passare attraverso la Manciuria settentrionale, che apparteneva alla Cina. Poiché la Manciuria settentrionale era un paese spopolato e semidesertico, dove, secondo il modo di ragionare russo, non esisteva un vero ordine, si autorizzò la compagnia ferroviaria ad autogovernarsi e a tenere reparti militari in territorio cinese per difendere la linea e le stazioni ferroviarie. In altre parole, la Manciuria settentrionale venne occupata militarmente dalla Russia, poiché le truppe della compagnia ferroviaria altro non erano, beninteso, che soldati russi, comandati da ufficiali russi. Questo avveniva nel 1896, quando ancora si considerava Vladivostok come stazione terminale della linea. Nel giro di due anni si pensò tuttavia che era opportuno modificare non solo il tracciato, ma anche la stazione terminale. Vladi- vostok era troppo isolata dalle vie commerciali dell'Estremo oriente. Il clima era cosi inclemente che il porto doveva restare chiuso al traffico per vari mesi dell'anno. I porti della Manciuria meridionale, invece, non solo non erano intralciati dal maltempo, ma si trovavano anche su un'attiva via commerciale, che conduceva al cuore stesso dell'impero cinese, cioè a Pechino. Si decise allora di spostare verso sud la linea ferroviaria. A tale scopo, nel 1898, ci si fece dare « in affitto » dalla Cina i porti più meridionali della Manciuria, ossia Port Arthur e Ta-lien-van (ribattezzata in russo Dalnij). Al regime di « affitto » si associò anche qui quello di occupazione: Port Arthur era una fortezza; essa doveva accogliere una guarnigione russa e diventare, col lavoro degli ingegneri russi, una fortezza inespugnabile; sarebbe stata questa la base dell'intera flotta russa del Pacifico, che ci si proponeva di rafforzare notevolmente. Quale porto commerciale si scelse Dalnij, dove furono creati depositi, docks, una centrale elettrica, ecc. In tutta l'operazione vennero investiti 16 milioni di rubli oro. Vitte, che fu l'animatore della politica russa in Estremo oriente alla fine del secolo XIX, riuscì in tal modo a espandere il mercato dell'industria russa. Con l'unica differenza del ramo industriale (metallurgia e non industria tessile) impegnato principalmente nell'operazione (anche se non era in causa la sola metallurgia, perché ci si accingeva a esportare in Cina anche cherosene e altri « beni vitali »), la politica di Vitte ricordava puntualmente la politica seguita da Nicola I nel Vicino oriente (si veda la seconda parte). La conquista diretta, con l'impiego delle baionette, ebbe però una funzione più ristretta nella politica di Vitte, rispetto a quella di Nicola I. 
Vitte era, in realtà, più un borghese che un feudatario. Naturalmente, presto o tardi si sarebbe arrivati allo scontro armato. La Russia si preparava intensamente alla guerra: tra il 1892 e il 1902 le spese militari russe furono aumentate del 48%, e, in particolare, quelle per la flotta crebbero del 100%, passando da 48 a 98 milioni di rubli oro. L'ul- tima cifra mostra chiaramente che non era più in causa Costantino- poli: la flotta del Mar nero era stata costruita sotto Alessandro III e non fu quasi integrata con nuove unità negli anni novanta. Le spese militari russe crescevano, inoltre, con un ritmo più rapido rispetto a quello di qualsiasi altro paese d'Europa; subito dopo la Russia veni- vano, in questo campo, la Germania e Austria-Ungheria, ma, tra il 1892 e il 1902, la prima aumentò il suo bilancio militare del solo 36% e la seconda del 32%. La Russia si preparava alla guerra più energicamente di qualsiasi altro Stato. Ma Vitte sperava di poter rin- viare la guerra per molto tempo. 
La politica di Vitte in Estremo oriente conteneva senza dubbio in sé i germi dell'imperialismo, specialmente ove si pensi alla Banca russo-cinese, ma nella sostanza era la prosecuzione della politica coloniale espansionistica svolta dai « Romanov » nei secoli XVIII-XIX. I metodi erano, beninteso, più complessi e i piani più lungimiranti: Vitte e, in particolar modo, il suo alleato Kuropatkin, ministro della guerra, sognavano di poter realizzare, mediante le costruzioni ferrovia- rie, una colonizzazione, che avrebbe di colpo condotto l'impero sulle coste del Pacifico e risolto al tempo stesso quella questione agraria che preoccupava molto i due ministri. Però, strada facendo, la « nor- male » colonizzazione di Vitte si tramutò nella colonizzazione selvaggia, mercantesca e feudale dei suoi padroni coronati, dei « Romanov ». 
Anche questi padroni ebbero una crisi sui generis. All'inizio del secolo XX la casa dello zar si moltiplicò incredibilmente. I « Romanov », compresi i collaterali, diventarono più d'una cinquantina. I grandi principi furono cosi suddivisi in categorie, e veri grandi principi furono quindi considerati soltanto i figli e nipoti dell'imperatore sul trono, gli altri vennero detti solo « principi di sangue imperiale » e chiamati semplicemente « altezza », non « altezza imperiale ». Inoltre, ciò che più conta, fu introdotto anche il sistema « annonario ». In precedenza a ciascun membro della casa reale erano garantiti mezzi con cui egli poteva condurre una vita « conveniente » e tutta la sua cerchia di oziosi poteva nutrirsi a sazietà. Ora, invece, benché i « Romanov » fossero ricchi, non si riusciva ad assicurare a tutti una vita « conveniente ». Già con Alessandro III il sistema della distribuzione secondo le necessità di ognuno fu sostituito con la distribuzione di una certa aliquota. In tal modo ai « principi del sangue » fu assicurato un tenore di vita non superiore a quello di un comune grande proprietario fondiario ricco. Il che non consentiva di vivere da zar.
 Il primo miliardario dell'universo si trovò pertanto nella necessità di incrementare i propri miliardi. Il dicastero dell'appannaggio, su cui ricadeva l'incombenza di dar da mangiare e da bere ai « Romanov », cominciò quindi a prendere parte a varie iniziative economiche: assunse, ad esempio, la direzione del commercio dei vini prodotti nei vigneti zaristi. I capitali dei « Romanov » furono investiti all'estero in varie imprese. Tra l'altro, corse insistentemente voce che i maggiori azionisti della ditta inglese Vickers, produttrice di navi da guerra, cannoni, corazze, ecc., fossero proprio i « Romanov ». La qual cosa è strana soprattutto perché questa ditta rifornì la flotta giapponese, che potè quindi sparare sugli incrociatori corazzati russi con i cannoni dei « Romanov ». Ma in complesso queste erano inezie: le ampie fauci dei « Romanov » avrebbero potuto inghiottire una decina di Vickers con i loro redditi. Ora, come spesso capita ai grandi proprietari fondiari in declino, comparve un diavolo-tentatore, che cominciò ad allettare la famiglia « Romanov » con un'impresa vantaggiosa al di sopra di qualsiasi immaginazione. Questo diavolo fu un certo Vonljarljarskij, colonnello a riposo, il cui nome è senza dubbio sconosciuto ai lettori del nostro libro, ma che è pienamente meritevole di diventare un nome storico. Vitte definì il colonnello come « un affarista della peggiore specie ». Il colonnello era semplicemente un mariuolo, come ne capitano sempre tanti nelle grandi case ricche in declino. Comparve nel 1898, quando per opera di Vitte l'Estremo oriente era ormai diventato di moda, e attraverso il grande principe Aleksandr Michajlovic fece pervenire allo zar un promemoria in cui si diceva che era estremamente facile arricchirsi con i grandi tesori conservati nelle viscere della.
Che cos'era la Corea? A quel tempo era un paese confinante con la Russia lungo la regione dell'Ussuri, la cui capitale, Vladivostok, si trovava a poche decine di chilometri dal confine coreano. La Corea, che era stata un regno semindipendente, vassallo della Cina, a partire dal 1895, dopo il conflitto cino-giapponese, era divenuta un « impero indipendente », ma che di fatto non godeva della minima autonomia: in essa si alternavano infatti l'influenza russa e quella giapponese. Il ministero russo degli esteri riconobbe più tardi in un promemoria segreto che « /'/ destino della Corea come parte dell'impero di Russia è stato da noi predeterminato in virtù delle condizioni geografiche e politiche ». Su questa base, continua il promemoria, i diplomatici russi respinsero la spartizione della Corea proposta dal Giappone nel 1896: questo avrebbe infatti significato rinunciare « spontaneamente alla propria libertà d'azione in avvenire ». In realtà, due anni più tardi, dopo la conquista di Port Arthur da parte della Russia, si dovette addivenire a qualche concessione: la Russia si impegnò a « non creare intralci » al « predominio del Giappone nella sfera delle imprese commerciali ed economiche in Corea »; ma, come ammette trionfalmente lo stesso promemoria, si trattava soltanto di un palese inganno messo in opera dalla diplomazia russa. Poiché a quel tempo non vi era una sola « impresa commerciale ed economica » russa in Corea, la Russia in realtà vendeva, per cosi dire, solo aria, e otteneva in cambio cose reali come i porti non soggetti a gelate della Manciuria meridionale.
 Ebbene, nemmeno a farlo apposta, un'« impresa commerciale ed economica », per di più appartenente agli stessi « Romanov », fece a quel tempo la sua comparsa in Corea. Quest'« impresa » non si ridu- ceva affatto a una piccola concessione forestale sul fiume Ya-lu, su cui fecero in seguito, negli anni 1905-1906, tanto chiasso i giornali russi; la concessione fu solo un pretesto per conquistare la Corea: per un'inezia come una concessione forestale i « Romanov » non si sarebbero davvero sporcate le mani. Si trattava invece della conquista di un intero paese, di poco più piccolo dell'Italia, con una superficie di 228.000 chilometri quadrati e con una popolazione di oltre 10 milioni di abitanti. In realtà, i « Romanov » non avevano bisogno né di terra né di uomini: l'una e l'altra cosa erano più che sufficienti in Russia. Ciò che contava e di cui si dicevano mirabilia erano le ricchezze minerali della Corea: giacimenti auriferi, di carbone, altri minerali, ecc. L'alto funzionario del dicastero dell'appannaggio — tutta la questione fu trattata come fosse un affare di famiglia dei « Romanov » — riuscì a ottenere dall'imperatore coreano una concessione per lo sfruttamento di tali ricchezze. Era questo, a giudizio della diplomazia russa, lo « scopo principale » a cui tendeva l'alto funzionario russo: « attrarre in Corea capitali russi e stranieri per sfruttare i ricchissimi giacimenti dell'appannaggio della Corte coreana e impedire il trasferimento di tali ricchezze in mani giapponesi ».

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Category: General history articles | Added by: Sergo (26.11.2018)
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