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La Guerra Giapponese. Russo-Japanese War 1904-1905 (Chapter 2)

[ Chapter 2 ]

La diplomazia ufficiale prometteva quindi formalmente di « non creare intralci », mentre un fiduciario di Nicola II, che non era registrato nei quadri diplomatici, si recava in Corea per « impedire »... Questa doppiezza non poteva non essere smascherata dai giapponesi e non poteva altresì non inasprire al massimo i rapporti tra i due paesi. L'aria sapeva di guerra già nel 1899. Il quinquennio successivo, che precedette la guerra, vide i disperati tentativi del ministero russo degli esteri e, in particolare, di Vitte di dilazionare il conflitto, mentre Nicola II con la sua sorda ostinazione continuava a far leva sulla sua << impresa commerciale ed economica ». Vonljarljarskij era stato ormai da tempo respinto in secondo piano da uomini più abili, ma della stessa risma: il bellimbusto di Corte Bezobrazov, che ricevette da Nicola il titolo di « segretario di Stato » (una specie di ministro senza portafoglio), e l'ufficiale di marina Abaza, nominato ammiraglio dallo zar. In Corea vennero pian piano introdotti i reparti militari russi: soldati vestiti da « operai » e ufficiali vestiti da sorve- glianti dei lavori o da « appaltatori ». Tutto fu fatto in modo mise- revole: non si sarebbe potuto mimetizzare un grande reparto; i giapponesi avrebbero reagito dal canto loro inviando un altro reparto; e cosi lo scontro armato sarebbe stato inevitabile. Non si riuscì nemmeno ad allontanarsi troppo dal confine russo: dei giacimenti si parlò molto, ma di fatto si lavorò solo alla concessione forestale sul fiume Ya-lu (che separava la Corea dalla Manciuria). Al tempo stesso il Giappone stava riarmandosi non meno febbrilmente della Russia. Era chiaro che senza una vera guerra, con le sole piccole truffe, non si sarebbe potuto penetrare in Corea. 
Bezobrazov e soci puntavano sulla guerra, perché erano convinti del suo « esito vittorioso ». Ma Vitte resistette a lungo, appoggiato dal ministro della guerra Kuropatkin. Quest'ultimo, che aveva partecipato al conflitto russo-turco del 1877-1878 e ricordava bene lo scontro russo-tedesco (cfr. sopra), capiva una sola guerra, quella per Costantinopoli, e su tale strada vedeva un solo nemico, i tedeschi. Ogni battaglione, ogni batteria inviati in Estremo oriente indebolivano la difesa sulla Vistola: e ciò era sufficiente per fare di Kuropatkin un avversario di ogni avventura in Estremo oriente. Per sfortuna sua e di Vitte, Kuropatkin non brillava per energia né sul campo di battaglia né durante i numerosi convegni che Nicola convocò sul tema della sua « impresa » prediletta. A Kuropatkin mancò il coraggio di spiegare allo zar che la guerra con il Giappone sarebbe costata quasi un miliardo di rubli oro e almeno trentamila vite umane (in effetti, costò almeno il doppio) e che la Corea non valeva tali sacrifici. Allorché vide che Nicola II teneva duro, si mise sugli attenti, come un buon soldato, e disse: « Ai suoi ordini! ». Sui miliardi, raccolti tra il popolo, e non cavati dalle tasche dei « Romanov », e sulle vite umane, dei contadini e degli operai, Nicola aveva le sue opinioni. Gli veniva l'acquolina all'idea dei miliardi che sarebbero fluiti nelle tasche dei « Romanov » dalla Corea, e cadde addirittura in estasi contemplando il quadro della sua futura ricchezza. Anzi, in tutto simile a un commerciante dei vecchi tempi, che dopo una truffa ben riuscita regalava la campana alla chiesa del suo villaggio, Nicola promise per iscritto di spendere le « eccedenze » dei suoi profitti coreani per la « costruzione di templi ortodossi ». Tuttavia, l'elemento essenziale che infiacchi la resistenza di Vitte e di Kuropatkin fu la loro stessa politica. Né l'uno né l'altro, il primo in vista della conquista del mercato dell'Estremo oriente, il secondo per i suoi piani di colonizzazione, potevano abbandonare la Manciuria. E, se con il Giappone si lottava per la Corea, con l'Inghilterra e con gli Stati Uniti ci si scontrava proprio sulla Manciuria. Il Giappone avrebbe potuto ottenere il denaro per la guerra soltanto dagli inglesi e dagli americani: lo scontro con questi ultimi era quindi più importante dello scontro con il Giappone. 
Tutta una serie di cause trattenne peraltro Nicola II, indipendentemente dall'irresoluta resistenza di Vitte e Kuropatkin. La Tran- siberiana non era stata ancora portata a termine: nello stesso 1904, quando la guerra aveva già avuto inizio, il tratto più difficile, quello intorno al Bajkal, era stato appena tracciato, e cosi le truppe tra- ghettarono il Bajkal con i rompighiaccio. Neanche la grande flotta russa — ed era chiaro che non si sarebbe potuta combattere una guerra contro il Giappone, potenza marittima, senza la flotta — era ancora allestita: quattro grandi incrociatori corazzati furono messi in funzione solo nel maggio del 1905 per scomparire nelle acque dello stretto di Tsushima. Port Arthur era ancora lontana dal diventare una « fortezza inespugnabile »: e non lo diventò nemmeno nel 1904. Infine, subito dopo l'inizio delP« impresa » coreana, si accertò che i russi non avevano ancora salde posizioni in Manciuria. I soli contratti e le sole concessioni si rivelarono inadeguati ad assicurare alla Russia il dominio di questa provincia cinese.
 L'impulso decisivo alla guerra venne dalla situazione interna della Russia: il potente alleato che decise a favore di Bezobrazov il suo conflitto con Vitte fu Pieve. Abbiamo già visto che Pieve, intorno al 1903, riuscì a spaventare in qualche modo gli intellettuali e a corrompere in qualche misura gli operai. Ma egli non poteva non capire quanto precari fossero quei rimedi. Ci volevano mezzi molto più vigorosi per deviare in altra direzione l'imminente ondata rivoluzionaria. Il popolo, era chiaro, detestava sempre più i « Romanov » e i loro accoliti. Non si poteva orientare quest'odio contro qualcun altro? 
Ebbero cosi inizio le ricerche del « nemico nazionale », prima interno, poi esterno. 
Le masse analfabete e incolte di una determinata località trattano sempre con sospetto coloro che per costumi e modi si differenzino dalle persone comuni. Questo sentimento è suscitato di solito nelle persone arretrate dagli stranieri: non è un caso che nella lingua dei popoli antichi per designare lo « straniero » e il « nemico » si usino la stessa parola o due termini derivanti dalla stassa radice. Ogni straniero è sospetto agli occhi delle persone incolte ed è addirittura detestato, se lavora o commercia meglio degli altri. Non si può quindi approfittare di questo fatto e liquidare i rivoluzionari « a furor di popolo »? 
A partire dagli anni ottanta il governo zarista cominciò a guar- dare di traverso gli ebrei, che costituivano la parte più operosa, attiva e intelligente della popolazione urbana, che viveva nelle zone meridionali e occidentali dell'impero russo. Essendo la parte più viva e mobile delle masse urbane, gli ebrei erano anche gli elementi più sensibili all'agitazione rivoluzionaria. Tra i giovani ebrei si costituirono i circoli della Narodnaja volja, e la letteratura marxista del gruppo Emancipazione del lavoro si diffuse prima a Vilno, Minsk e Kiev che in altre città russe, sin dalla metà degli anni ottanta. Non si può dire che i rivoluzionari fossero più numerosi tra gli ebrei che non tra i russi, ma per il governo zarista era vantaggioso che vi fossero degli ebrei rivoluzionari. Come sappiamo, a suo tempo il governo zarista aveva approfittato del fatto che Karakozov, esecutore dell'attentato contro Alessandro II nel 1886, fosse un aristocratico; era anche più facile avvalersi per i propri fini dell'esistenza degli ebrei rivoluzionari. Per disgrazia del governo, tra gli organizzatori dell'attentato del 1° marzo vi era stata una sola ebrea, che aveva avuto per di più una parte secondaria; gli altri elementi erano tutti russi e alcuni, come la Perovskaja, appartenevano a famiglie russe molto note. Non di meno la presenza di ebrei tra i seguaci della Narodnaja volja diede un impulso all'organizzazione dei primi pogrom antiebraici nel sud della Russia (1881-1882). Ne fu promotore, come si è detto, il futuro ministro Pieve, che era a quel tempo direttore del dipartimento di polizia. 
I pogrom rivelarono subito anche un lato spiacevole per il governo. La folla aizzata dagli agenti provocatori della polizia non si limitava a devastare, ma depredava anche le case degli ebrei; e, poiché era più conveniente depredare gli ebrei ricchi, si procuravano più danni alla borghesia ebraica, che non aveva alcun rapporto con la rivoluzione, che non agli ebrei poveri. Bisognava quindi organizzare in altro modo la persecuzione antiebraica. Ai pogrom messi in atto dalla folla si vennero sostituendo, nella seconda metà del regno di Alessandro III, i « pogrom silenziosi », cioè le persecuzioni poliziesche d'ogni genere contro gli ebrei. Venne intanto applicato severa- mente il principio della residenza obbligatoria, secondò cui gli ebrei non potevano risiedere nei governatorati grandi-russi e in quelli ucraini e bielorussi, potevano abitare soltanto nelle città (dove costituivano talvolta la maggioranza della popolazione e da cui non potevano quindi essere scacciati), ma non nei villaggi. Si limitò inoltre 1 accesso degli ebrei all'istruzione superiore, nel senso che su 100 studenti solo 3 potevano essere ebrei. Si vigilò accuratamente perché gli ebrei non venissero assunti come funzionari statali, il che era accaduto durante il regno « liberale » di Alessandro IL Per la sua particolare ferocia nei riguardi degli ebrei si distinse il governatore generale di Mosca, grande principe Sergio, fratello minore di Alessandro III. Molti artigiani ebrei, che vivevano da molto tempo a Mosca, furono cacciati via dalla città e inviati nelle zone di residenza obbligatoria. Al tempo stesso uno degli elementi più influenti della Corte del grande principe era un ebreo milionario, il noto imprenditore ferroviario Poljakov; chi desiderava commerciare a Mosca si faceva registrare come commesso di Poljakov; vi erano alcune centinaia di « commessi » di Poljakov. Si salvarono cosi la capra e i cavoli: Podio della famiglia e dei servi dello zar per gli ebrei fu soddisfatto, e la borghesia ebraica fu lasciata intatta, per avere qualcuno da cui ottenere dei soldi nei momenti difficili. 
S'intende che le persecuzioni a cui furono sottoposti gli ebrei poveri contribuirono soltanto a far sviluppare il loro spirito rivoluzionario. Basti dire che la residenza obbligatoria, impedendo all'operaio ebreo di spostarsi in cerca di lavoro, consegnava il proletariato ebraico, legato mani e piedi, all'imprenditore capitalista. In seno al proletariato ebraico cominciarono cosi a costituirsi le prime organizzazioni socialdemocratiche, che verso il 1897 si fusero nell'Unione operaia generale ebraica (detta Bund, che in tedesco significa « unione »; gli ebrei russi parlano, com'è noto, una lingua molto vicina a quella tedesca). All'ini- zio del XX secolo gli intellettuali ebrei svolsero tra i dirigenti del movimento rivoluzionario una funzione molto più importante di quella che avevano assolto tra i seguaci della Narodnaja volja: secondo i dati dei diversi congressi, gli ebrei costituivano dal 25 a oltre il 30% dello strato dirigente di tutti i partiti rivoluzionari.
 Questo fatto non poteva, naturalmente, migliorare i rapporti tra gli ebrei e il governo zarista, soprattutto quando alla testa di quest'ultimo fu posto un antisemita fanatico come Pieve. D'altra parte, la situazione del governo era diventata cosi terribile che non si poteva pm distinguere i « buoni » dai « cattivi » e salvare pertanto la borghesia ebraica. Pieve fece di nuovo ricorso all'arma a doppio taglio del pogrom, e questa volta in dimensioni che non avevano precedenti.
Nell'aprile età 1903 per due giorni interi infuriò a Kisinév una folla filistea imbestialita, che uccise e mutilò alcune centinaia di ebrei e saccheggiò oltre mille case e botteghe. Gli aggressori vennero a frotte dalle città vicine. La polizia rimase a guardare con tale indifferenza che non fu possibile dubitare delle sue simpatie per il pogrom. Il processo giudiziario, che si dovette in seguito imbastire, perché i fatti erano stati troppo vistosi e di essi avevano parlato tutti i giornali europei, rivelò che l'amministrazione locale, compreso il governatore, aveva collaborato all'operazione. Naturalmente, questo lato venne te- nuto nascosto, e nessuno, a parte due o tre persone di poco conto, fu realmente punito. Comunque, non si potè andare avanti con i pogrom, perché tale metodo si rivelò assai più rischioso di come era sembrato dopo l'esperienza degli anni ottanta. Al pogrom si fece di nuovo ricorso solo in caso di necessità estrema, quando la rivoluzione divampò come una fiamma vivissima, nell'ottobre del 1905. A parte tutto il resto, risultò assolutamente impossibile organizzare, pur con l'aiuto della polizia, pogrom nei centri industriali. Non solo perché il proletariato non accettava di partecipare ai pogrom, ma anche perché gli operai più rivoluzionari fornivano ogni appoggio all'« autodifesa » degli ebrei. Nelle campagne non vi erano ebrei. E pertanto i pogrom erano uno strumento poco adatto per lottare a un tempo contro il movimento operaio e contro il movimento contadino. Per richiamare l'attenzione sul « forestiero », bisognava rivolgersi altrove.
 I giapponesi parvero i più indicati alla bisogna. Erano « infedeli », non cristiani, « pagani ». E ogni ortodosso era quindi obbligato a detestarli già solo per questo motivo. L'unico guaio stava nel fatto che i giapponesi erano troppo lontani dalla Russia e che le masse popolari russe non avevano alcuna nozione di quei pagani. In compenso, il già menzionato Vonljarljarskij seppe far capire i dissidi col Giappone a Pieve, a cui lasciò intendere che i rivali della Russia nella politica internazionale erano gli stessi ebrei che « organizzavano la rivoluzione » all'interno della Russia. Pieve non cercava altro. La « piccola guerra vittoriosa » in Estremo oriente cominciò a sembrargli assolutamente necessaria. Quella guerra sarebbe stata « piccola » e im- mancabilmente « vittoriosa »: su questo punto i reazionari russi non nutrivano alcun dubbio. Come avrebbe potuto un marmocchio come il Giappone avere la meglio su un colosso come la Russia? Nell'estate del 1903 il Novoe vremja scrisse che per il Giappone la guerra contro la Russia avrebbe significato il « suicidio », né più né meno. 
Si decise pertanto di « far passare l'ebbrezza rivoluzionaria » con l'aiuto della guerra. Alla fine dell'estate del 1903 il governatorato gene si rale dell'Amur e la Manciuria occupata dalle truppe russe (nel 1902 era promesso di far sgombrare i soldati, tranne che nella zona meridionale, ma ora non si voleva tener fede alla promessa fatta) furono unificati sotto l'autorità di un luogotenente, ossia di un rappresentante straordinario del potere zarista. A tale carica venne designato l'ammiraglio Alekseev, che faceva parte della cricca di Bezobrazov. Quest'ultimo era diventato nel frattempo il capo riconosciuto del « partito della guerra » e il personaggio più autorevole alla Corte zarista dopo Pieve. Vitte cominciò a cedere, ma, poiché dal punto di vista di Bezobrazov continuava a essere molto « infido » e, pur se non si opponeva apertamente, non faceva che piagnucolare e lamentarsi, lo costrinsero a dimettersi (nell'agosto del 1903). Alle proposte che i giapponesi avevano inviato in precedenza fu chiamato a rispondere Bezobrazov.
 Il governo nipponico aveva da tempo compreso perfettamente che ci si stava avvicinando alla guerra e aveva preso per parte sua tutti i provvedimenti necessari (tra l'altro, proprio nel 1902, aveva concluso un'alleanza con la Gran Bretagna). Nell'estate del 1903 il Giappone avviò delle trattative, non tanto perché sperasse di cavarne qualche costrutto, quanto perché desiderava avere le prove documen- tarie sui piani della Russia nei riguardi della Corea. Nelle proposte giapponesi il problema coreano era quindi posto con estrema nettezza. Il Giappone riconosceva i diritti della Russia sulla Manciuria, ma esigeva in compenso che la Russia riconoscesse i diritti del Giappone sulla Corea. La risposta elaborata da Bezobrazov e corretta per mano di Nicola II si può compendiare come segue: « In Manciuria i padroni siamo noi, senza discussioni; in Corea vedremo ». Naturalmente, il ministero russo degli esteri non osò consegnare al Giappone una risposta cosi nitida. Ma anche quello che venne comunicato al governo nipponico era abbastanza chiaro: la Russia non riconosce al Giappone il diritto di tenere un esercito in Corea, mentre i russi continuano a occupare la Manciuria; la Russia esige la « neutralizza- zione » di tutta la Corea del nord, mentre sul fiume Ylu sono acquartierati i soldati e gli ufficiali russi: in breve, la Russia non intende dare la Corea al Giappone. Ma già da tempo la borghesia giapponese si era insediata saldamente in Corea: all'inizio del 1904 in quel paese risiedevano circa 25.000 cittadini nipponici; il 90% delle navi che attraccavano nei porti coreani batteva bandiera giapponese; tutti i fari intorno alla penisola erano in mano nipponica; le linee ferroviarie erano state costruite dai giapponesi; in tutto il paese funzionavano uffici postali e stazioni telegrafiche giapponesi, ecc., ecc. La perdita della Corea sarebbe stata un grave scacco per il governo nipponico e, come attestano i diplomatici stranieri del tempo, avrebbe potuto provocare una rivoluzione in Giappone. La cosa fu pienamente confermata dallo stesso ambasciatore russo a Tokyo, Rozen, il quale nel gennaio 1903 dichiarò ufficialmente: sono persuaso dell'« inevitabilità di uno scontro armato col Giappone nel caso in cui da parte nostra si compia il serio tentativo di impadronirsi della Corea o di qualche centro sul suo territorio ». Per di più, proprio nel 1904, il Giappone si assicurò il sostegno finanziario degli Stati Uniti. Il presidente Roosevelt non ammetteva neanche l'idea che i russi potessero essere i padroni assoluti della Manciuria; stipulò con la Cina (la Manciuria continuava a essere formalmente una provincia cinese) un trattato secondo cui in Manciuria avevano libero accesso i cittadini e le merci degli Stati Uniti. Ma Pieve sostenne con fermezza che in Manciuria non sarebbero entrati né americani né inglesi. 
Come abbiamo visto, alla Corte di Nicola II non si aveva alcun timore riguardo al conflitto con il Giappone, ad esso ci si avviava a cuor leggero e, stranamente, non si faceva alcun preparativo. Si era persuasi che il Giappone « non avrebbe osato » attaccare e avrebbe sopportato pazientemente l'attacco russo. A quest'ultimo, secondo la consuetudine, « non si era preparati », e pertanto Nicola II, nel gennaio del 1904, prese a dichiarare che « non desiderava la guerra », ecc. \ I giapponesi, naturalmente, non potevano aspettare che Nicola « desiderasse » il conflitto. Cosi, non appena compresero che gli ulteriori negoziati non avrebbero dato alcun frutto e che una dilazione avrebbe solo aiutato i russi, consentendo loro di portare a termine la preparazione militare, decisero di agire. Il 5 febbraio (nuo- vo calendario) del 1904 il Giappone ruppe le relazioni diplomatiche con la Russia, e nella notte dall'8 al 9 febbraio le torpediniere nippo- niche attaccarono la squadra navale russa nella rada di Port Arthur. 
Il governo zarista potè replicare a quest'azione soltanto con strepiti sul « proditorio attacco del perfido nemico », con grida ipocrite, perché l'attacco dei giapponesi, ammesso dal diritto internazionale, il quale non esige affatto immancabilmente la solenne dichiarazione di guerra prima dell'inizio delle operazioni militari, fu molto più leale e sincero dei progetti di Bezobrazov di occupare militarmente quella stessa Corea del nord di cui la Russia esigeva la « neutralizzazione » da parte giapponese. Bezobrazov non seppe realizzare i suoi piani astuti i giapponesi riuscirono invece nel loro intento. Lo scambio di telegrammi tra Nicola e il suo luogotenente Alekseev non lascia adito a dubbi circa il fatto che la Russia avrebbe sferrato la guerra senza aspettare di essere sfidata dal Giappone, ma che l'esercito e la flotta russi erano ancora impreparati alla lotta. Il comando militare russo condivideva, evidentemente, la persuasione radicatasi al Palazzo d'in- verno, secondo cui i giapponesi « non avrebbero osato » attaccare. Si riteneva il Giappone molto più debole di quanto non fosse in realtà, anche se Kuropatkin aveva calcolato che per un conflitto russo-nipponico sarebbe occorso un esercito di 300.000 uomini. In realtà, in Manciuria, all'inizio del 1904, erano concentrati circa 100.000 soldati russi. La flotta russa in Estremo oriente era alquanto più forte di quella giapponese, ma dispersa in varie località: le forze principali stazionavano a Port Arthur, una parte più piccola a Vladivostok, singole navi nei porti coreani. Lo stato di preparazione al combattimento era inoltre minimo, come se dovesse passare ancora molto tempo prima dell'inizio del conflitto, mentre il Giappone, sin dal 5 gennaio, si trovava sul piede di guerra. Nella flotta russa non si erano introdotti dei segnali speciali per consentire durante la notte il riconoscimento delle proprie navi: cosi, le torpediniere giapponesi poterono penetrare nelle acque di Port Arthur come se fossero navi russe, e solo quando queste navi « russe » cominciarono a lanciare torpedini contro le navi russe alla fonda, i comandanti di queste ulti- me si resero conto dell'errore. In quell'occasione furono messe fuori combattimento tre navi russe, tra le quali due grandi incrociatori corazzati. La flotta russa diventò cosi più debole di quella giapponese e rimase chiusa nel porto, che i giapponesi si affrettarono a bloccare, approfittando, oltre tutto, di un altro errore commesso dai russi: il comando della flotta russa non pensò di occupare le isole che si trovavano a poche ore di viaggio da Port Arthur e nelle quali i giapponesi organizzarono la loro base. Riparata dietro sbarramenti di grosse^ travi, la flotta giapponese potè restarsene in assoluta tran- quillità, senza temere un attacco delle torpediniere nemiche. I giap- ponesi furono cosi assicurati contro un attacco come quello subito dalla squadra navale russa. 
Bloccando la flotta russa (due incrociatori, «dimenticati» in Corea, furono affondati dai giapponesi), il Giappone risolse il suo primo problema militare, che era quello di far sbarcare senza ostacoli le sue truppe sul continente. Inviò in Corea la prima delle armate nipponiche, destinate alle operazioni militari in Manciuria; nel corso di febbraio, marzo e aprile quest'armata si trasferì lentamente verso nord, occupando il paese « controverso ». Gli esigui reparti russi della concessione forestale non poterono, naturalmente, opporsi all'avanzata dei giapponesi. E le incursioni degli incrociatori russi, che si trovavano a Vladivostok, intralciarono assai poco le operazioni di sbarco sul continente. La flotta di Port Arthur, posta sotto il comando dell'ammiraglio Makarov, uomo molto più energico inviato da Pietroburgo in sostituzione del vecchio comandante, tentò di spezzare il blocco giapponese. Ma in uno dei primi tentativi di uscire dal porto avvenne la catastrofe: la nave ammiraglia urtò contro una mina posta dai giapponesi e colò a picco insieme con il comandante in capo. Dopo questo fallimento (avvenuto il 31 marzo, cioè il 13 aprile, 1903) la flotta russa rimase a lungo, sino alla metà di giugno, immobile a Port Arthur.
 Tre settimane più tardi (il 1° maggio, secondo il nuovo calendario) l'esercito giapponese raggiunse le rive del fiume Ya-lu. Kuropatkin, che nel frattempo aveva assunto il comanto dell'esercito in Manciuria, non si decise a muovere incontro al nemico o a retrocedere, attirando i giapponesi nell'interno della Manciuria, cosa che egli considerava come la più opportuna. Scelse una linea di mezzo e inviò sul fiume Ya-lu una unità militare, molto più debole dell'armata giapponese. Quest'ultima sconfisse senza fatica il reparto russo ed entrò in Manciuria. Nel frattempo, essendosi garantiti contro qualsiasi attac- co dal mare, i giapponesi cominciarono a far sbarcare nella Manciuria meridionale una seconda armata, che si impadronì della linea ferro- viaria, da cui Port Arthur era collegata alla Russia, e, avanzando rapidamente verso sud, conquistò il controllo dell'istmo che congiunge la penisola dove si trovano Port Arthur e Dainij con la Manciuria. L'istmo sarebbe stato inaccessibile, se la sua difesa fosse stata soste- nuta dalla flotta, ma nel mare dominava adesso la flotta giapponese, e quindi non era possibile tenere sull'istmo le proprie posizioni. In seguito venne conquistato il porto di Dalnij, che, con la sua rada, i depositi, ecc., costituì per i giapponesi una base eccellente per asse- diare Port Arthur, che veniva cosi bloccata dal mare e ora anche da terra. Kuropatkin, il quale già si aspettava che Port Arthur venisse tagliata fuori (la cosa era prevista nel suo piano di operazioni), sotto la pressione di Pietroburgo decise di nuovo di prendere una mezza misura: a dare man forte a Port Arthur fu inviato un reparto che era più debole delle unità giapponesi che assediavano la fortezza. I giapponesi riuscirono intanto a sbarcare una terza armata. L'iniziativa russa subì lo stesso insuccesso che aveva avuto sul fiume Ya-lu (battadia di Va-fan-kow del 14-15 giugno, nuovo calendario). L'esercito russo si perdette d'animo, dinanzi alle sconfitte subite, mentre l'esercito giapponese acquisiva profonda fiducia nelle sue^ forze e si veniva persuadendo che avrebbe avuto la meglio sull'esercito russo. 
Questa persuasione era parzialmente condivisa, con tutta evidenza, dallo stesso comandante in capo delle unità russe. Kuropatkin decise infatti di non passare all'offensiva, fino a che il suo esercito non avesse avuto una netta superiorità numerica sui giapponesi. Sul piano qualitativo, i nipponici erano di gran lunga superiori ai russi. Il Giap- pone impegnò in questa guerra, che esso considerava per sé come una questione di vita o di morte, le sue forze migliori. Il governo russo conservò invece i suoi quadri scelti per la lotta contro il nemico interno, per reprimere la rivoluzione, e inviò in Manciuria gli uomini della riserva. Si trattava di uomini sulla quarantina, che da tempo non facevano più vita da campo, che a volte non sapevano maneggiare i nuovi fucili, perché erano stati in servizio al tempo in cui la fanteria russa era ancora equipaggiata con i vecchi armamenti. Gli artiglieri quasi non conoscevano i nuovi cannoni, che l'artiglieria russa aveva ri- cevuto alla vigilia del conflitto. E pertanto l'artiglieria giapponese, pur disponendo di armi peggiori di quelle russe, riusciva a soffocare con il suo fuoco le batterie russe. 
Kuropatkin si attestò presso Liao-yang, principale nodo ferrovia- rio della Manciuria meridionale, di dove passava la linea che congiungeva Port Arthur con la Russia. Intorno a questo centro fu approntato un ampio campo fortificato, dove l'esercito russo si schierò in attesa del nemico. Quest'ultimo sbarcò senza fatica una quarta armata, cosi che contro Kuropatkin operarono complessivamente tre armate, le quali avanzarono immediatamente e senza incontrare resistenza, o quasi, verso nord. L'operazione fu svolta nei mesi di giugno, di luglio e di una parte di agosto. Intorno alla metà di agosto le armate giapponesi si ricongiunsero e cominciarono ad attaccare Liao-yang. Kuropatkin non fece alcun tentativo di dividere le armate nipponiche e impedirne il congiungimento, anche se nell'agosto, per effetto dei rinforzi che arri- vavano senza sosta dalla Russia, era già più forte dei giapponesi, in quanto disponeva sulla carta di 200.000 uomini, e di fatto di non meno di 150.000, mentre le tre armate giapponesi avevano in tutto intorno ai 130.000 uomini.
 Il 24 agosto (nuovo calendario) i giapponesi sferrarono l'attacco contro d campo fortificato di Liao-yang. Nei primi due giorni l'attacco tu respinto, e i giapponesi subirono gravi perdite. Ma il terzo giorno una delle armate giapponesi (la stessa che aveva a suo tempo attraversato il fiume Ya-lu) si trovò alle spalle di Kuropatkin. Poiché i ten- tativi di respingere questa unità non riuscirono e i giapponesi conti- nuavano ad avanzare, Kuropatkin, per timore di restare tagliato fuori dalla Russia e bloccato come a Port Arthur, decise di abbandonare Liao-yang e di arretrare verso nord, verso Mukden (capitale della Manciuria). Il campo di Liao-yang con le sue immense provviste cadde in mano nipponica. L'esercito russo non era stato sgominato, si era ritirato in perfetto ordine, le sue perdite erano state in complesso minori di quelle giapponesi, e tuttavia, dopo Liao-yang, la convinzione che non si riuscisse ad « avere la meglio » sui giapponesi cominciò a diffondersi largamente in Russia. Pur non costituendo una svolta nella guerra, la battaglia di Liao-yang segnò tuttavia un mutamento negli umori della società russa. La stizza si andò sostituendo all'eccitazione patriottarda: perché mai ci siamo imbarcati in questa guerra sventurata? Delle conseguenze degli umori di Liao-yang dovremo ancora parlare nel capitolo successivo. 
Per reagire a questo stato d'animo, si ordinò a Kuropatkin di passare a qualsiasi costo all'offensiva alla prima occasione. Si inviarono inoltre in Estremo oriente reparti scelti. Ai primi di ottobre Kuropatkin disponeva ormai di 200.000 uomini, non più sulla carta, ma realmente, mentre i giapponesi ne avevano in tutto 160.000. Il 10 ottobre (nuovo calendario) le unità di Kuropatkin sferrarono l'offensiva, che si pro- trasse per più di una settimana e in cui furono messi fuori combattimento 45.000 soldati russi (battaglia sul fiume Shahe). Le perdite nipponiche furono questa volta molto minori. I resoconti ufficiali russi diedero grande rilievo all'ultima parte della battaglia, quando l'esercito di Kuropatkin riuscì ad annientare una brigata giapponese e a catturare undici cannoni (che furono gli unici trofei di tutto il conflitto). In realtà, quella battaglia fu un insuccesso. L'esercito giapponese non solo mantenne le sue posizioni, ma creò anche difficoltà all'esercito russo. In complesso, la situazione non subì mutamenti, e a Kuropatkin non rimase che acquartierarsi presso Mukden per trascorrervi l'inverno.
 La soluzione venne sei mesi dopo, ma in quel periodo i giapponesi riuscirono a vibrare ai russi un colpo decisivo in un'altra zona, raggiungendo uno degli obiettivi della guerra. Già nell'estate, tra giu- gno e luglio, la posizione di Port Arthur sembrava ormai insostenibile, al punto che la squadra navale russa, bloccata nella rada, per timore di cadere in mano nipponica, tentò una sortita per trasferirsi a Vladivostok. Il 12 agosto (nuovo calendario) usci dal porto e si imbatté nel grosso della flotta nipponica. I giapponesi avevano intanto perduto due grandi corazzate, che erano andate a urtare contro mine russe, e quindi il 12 agosto le forze russe e nipponiche si bilanciavano. Il combattimento rimase sostanzialmente indeciso. I giapponesi subirono perdite più gravi di quelle russe, ma nel corso della battaglia fu ucciso il nuovo comandante in capo russo e fu messa fuori combattimento la nave ammiraglia. I comandanti russi perdettero la bussola, e le navi presero a vagare in varie direzioni. La maggior parte della squadra rientrò a Port Arthur, una minoranza si nascose in vari porti neutrali e fu costretta a disarmare. Al tempo stesso i giapponesi sgominarono la squadra di incrociatori proveniente da Vladivostok. Sino a maggio del 1905 sul Pacifico non si vide più una bandiera russa.
 La sorte delle navi superstiti della flotta russa del Pacifico era adesso legata alla sorte di Port Arthur. Ma nessuna fortezza, per quanto ben attrezzata e difesa valorosamente dalla sua guarnigione, avrebbe potuto resistere all'infinito: se non avesse ricevuto aiuti dell'esterno, si sarebbe dovuta arrendere. E dall'esterno non si poteva sperare di ricevere aiuti, soprattutto dopo la sconfitta subita da Kuropatkin sul fiume Shahe. La nuova flotta del Pacifico, costituita a Kronstadt in parte di navi non allestite a tempo per l'inizio della guerra e di navi vecchie, che in un primo momento si era pensato di mettere fuori uso, intraprese il viaggio in autunno e, doppiato il capo di Buona speranza, giunse in prossimità delle coste coreane solo in primavera. Non ci si poteva aspettare che Port Arthur resistesse cosi a lungo. I giapponesi assediavano il porto con tutta l'energia di cui erano capaci. Gli insuccessi iniziali — cioè dell'agosto, quando essi non disponevano ancora dell'artiglieria pesante necessaria — non li fecero perdere d'animo. Portarono armi di grosso calibro, che non erano state mai usate negli scontri di terra e al cui fuoco non potevano reggere gli assediati di Port Arthur. La guarnigione russa subì perdite molto gravi: sopravviveva ormai a fatica. Il 30 novembre (nuovo calendario), sotto la protezione della loro artiglieria, i giapponesi si impadronirono di un'altura, che dominava la rada di Port Arthur. In tal modo poterono cannoneggiare le navi russe. La flotta era ormai condannata a soccombere, non vi erano più munizioni, e scarseggiavano i viveri. Alla fine di^ dicembre il generale Stoessler, comandante di Port Arthur, cominciò a trattare con i giapponesi e il 2 gennaio (nuovo calendario) del 1905 si arrese con tutti i suoi uomini e con tutta la flotta (i russi riuscirono però ad affondare uno dei loro incrociatori corazzati). In mano giapponese finirono 32.000 prigionieri, oltre 500 cannoni, 4 incrociatori corazzati, 2 incrociatori e altre 20 navi di minore importanza. 
La caduta di Port Arthur fece uscire il conflitto dal punto morto in cui si trovava dopo i primi vertiginosi successi giapponesi sulla terraferma e sul mare. La guerra era per gran parte vinta dai giapponesi. Se i russi avessero avuto la ventura di sgominare Pesercito nipponico, avrebbero dovuto riprendere Port Arthur, cosa che senza l'aiuto della flotta sarebbe stata impossibile. Al tempo stesso la situazione dell'esercito giapponese migliorò con l'afflusso delle forze impegnate nell'assedio della fortezza. Subito dopo la capitolazione di Port Arthur, i giapponesi si accinsero a preparare una nuova offensiva contro l'esercito russo. Ma queste conseguenze strategico-militari della vittoria giapponese erano insignificanti rispetto all'eco che quelle vicende dovevano avere all'interno della Russia: agli umori di Liaoyang subentrò un senso di autentica indignazione contro il governo, che aveva imposto alla Russia questa guerra. La presa di Port Arthur segnò per la Russia l'inizio della rivoluzione popolare.


Michail N. Pokrovskij, "Storia della Russia", Prefazione di Ernesto Ragionieri, Editori Riuniti, Rome, 1970

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Category: General history articles | Added by: Sergo (26.11.2018)
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